Condizioni per la richiesta di restituzione di contributi alimentari versati in eccesso

Caso 358 del 15/06/2015

Un coniuge che nonostante la fine dell’obbligo contributivo continua a versare per errore i contributi di mantenimento può chiederne la restituzione?

In una sentenza del 22 gennaio 2015 il Tribunale federale di Losanna ha stabilito quanto segue:

Chi dopo la fine dell’obbligo contributivo secondo la convenzione di divorzio omologata nella relativa sentenza prosegue nel pagamento di contributi di mantenimento, può chiedere la restituzione di quanto versato qualora dimostri che era in errore sull’obbligo contributivo. L’errore non necessita di essere scusabile. Una ripetizione non può essere richiesta se chi ha ricevuto il pagamento non è più arricchito, a meno che se ne sia spossessato in mala fede.

Sentenza TF 5A_159/2014


Nota a cura dell'avv. Alberto F. Forni


I coniugi hanno divorziato il 28 febbraio 1995. Secondo la convenzione di divorzio, omologata dal giudice nell’ambito della relativa sentenza, il marito si è obbligato a pagare determinati contributi alimentari a favore della moglie e delle figlia nata nel 1993.
Per la moglie l’obblio contributivo era di CHF 3'600.00 mensili fino al compimento del 10mo anno di età della figlia e in seguito di CHF 1'500.00 mensili fino al compimento del 16mo anno di età della figlia. Per quest’ultima l’alimento è stato previsto in CHF 650.00 mensili fino al suo decimo anno di età e in seguito di CHF 750.00 mensili fino alla maggiore età (2011).
Fino al 2005 il marito ha pagato l’importo corretto indicizzato e in seguito un importo forfetario pari a CHF 2'500.00 mensili per moglie e figlia e ciò anche oltre il compimento del 16mo anno di età della figlia.
Il 18 luglio 2011 l’ex marito ha comunicato alla ex moglie di averle versato tramite ordine permanente rimasto invariato per anni l’importo di CHF 35'354.00 di troppo, chiedendole la restituzione di tale importo. A seguito del relativo rifiuto, l’ex marito ha avviato la procedura giudiziaria, per il tramite del preliminare obbligatorio esperimento di conciliazione (fallito), chiedendo la restituzione dell’importo, oltre interessi dal 18 luglio 2011.
La vertenza è giunta sino al Tribunale federale.

Giusta l’art. 62 cpv. 1 CO chi senza causa legittima si trovi arricchito a danno dell'altrui patrimonio, è tenuto a restituire l'arricchimento; si fa luogo alla restituzione specialmente di ciò che fu dato o prestato senza valida causa, o per una causa non avveratasi o che ha cessato di sussistere. L’art. 63 cpv. 1 CO precisa che chi ha pagato volontariamente un indebito può pretenderne la restituzione, solo quando provi d'aver pagato perché erroneamente si credeva debitore.
Secondo la costante giurisprudenza del Tribunale federale l’errore non deve essere scusabile; la restituzione può essere chiesta per qualsiasi tipo di errore, vale a dire un errore di diritto o sui fatti, scusabile o meno (DTF 129 III 646, consid. 3.2, pag. 650 e riferimenti).

In concreto l’argomentazione della ricorrente, secondo cui l’ex marito doveva sapere di non avere più l’obbligo alimentare, per cui l’errore era dovuto a lui stesso, è stata rigettata, proprio perché – richiamata la giurisprudenza citata – non conta se l’errore sia o meno scusabile.

L’art. 64 CO spiega che chi si è indebitamente arricchito non è tenuto a restituire ciò di cui provi che, al momento della ripetizione, non è più arricchito, a meno che se ne sia spossessato di mala fede o che dovesse prevedere la domanda di restituzione. L’art. 3 cpv. 2 CC precisa che nessuno può invocare la propria buona fede quando questa sia incompatibile con l'attenzione che le circostanze permettevano di esigere da lui.
La buona fede è da negare segnatamente in quei casi in cui chi l’arricchito al momento del versamento sapeva o doveva sapere, usando la necessaria attenzione, che la prestazione non era dovuta (DTF 130 V 414, consid. 4.3, pag. 419 e seg.). Ogni lesione di questo principio porta al decadimento della protezione della buona fede, ciò che vale anche in caso di negligenza leggera (DTF 119 II 23, consid. 3c/aa, pag. 27; v. anche la dottrina maggioritaria).

Nel casco concreto la ricorrente ha sostenuto di non dover restituire nulla di quanto ricevuto di troppo siccome lo avrebbe utilizzato in buona fede; questa tesi è stata respinta. Al momento del divorzio la ricorrente (parte arricchita) ha infatti sottoscritto una convenzione, dimostrando così di aver partecipato attivamente alla fissazione dell’importo e del periodo contributivo. Con ciò doveva sapere che l’importo degli alimenti non era più dovuto. D’altra parte non c’erano motivi per giustificare la continuazione del pagamento anche dopo la sua scadenza.


Data modifica: 15/06/2015

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